13 marzo 2009

LA NORMALITÁ DELL’HANDICAP - INTERVISTA A PISANA COLLODI

di DARIA FAGO
In occasione della presentazione del libro La normalità dell’handicap, che si è svolta il 28 febbraio scorso presso la sede della LIDI, Lega per la Tutela dei Diritti degli Introversi (http://www.legaintroversi.it/), abbiamo rivolto alcune domande all’autrice, Pisana Collodi, psicologa e psicoterapeuta.

Come nasce questo libro?
Ho scritto questo libro sull’onda di un malessere, accumulato in anni di lavoro nel campo dell’handicap, prima come assistente domiciliare, poi operatrice sociale e infine come consulente psicologa presso l’AP, Associazione Paraplegici di Roma, dal 1997 al 2007. Il malessere riguardava gli stili di cura e assistenza che vedevo all’opera tutti i giorni, al centro di riabilitazione o in ospedale, a scuola o per la strada, impersonati, indifferentemente, dai medici, dagli psicologi, dagli infermieri o dagli assistenti.

Quali sono gli stili di cura a cui fa riferimento?
Sono le pratiche oggettivanti di cura, l’autoritarismo e l’infantilizzazione dei pazienti o degli utenti,
lo “stile neutro” che prevale nei lavori di cura e assistenza: la pretesa del distacco e l’anaffettività della relazione, come obiettivo di “maturità”.
Assolutamente vietato, alle riunioni di équipe, fare accenno ai sentimenti provati nel lavoro, verso gli utenti e poi il martellamento costante, soprattutto nella riabilitazione, nell’assistenza sociale, nella consulenza psicologica, sull’autonomia, parola ormai dominante da anni, in qualunque contesto sociosanitario o educativo: dalla scuola materna al Centro Anziani. Autonomia intesa come un vero delirio di autosufficienza: non dovere mai avere bisogno dell’aiuto di un altro, neanche psicologicamente, quindi essere anche totalmente anaffettivi.
Il disabile in questo contesto diventa con facilità l’oggetto fobico su cui proiettare l’ansia verso una dipendenza sentita come inaccettabile.

Qual è stato invece il suo approccio di cura?
Mi sono chiesta quali aspetti, nella relazione terapeutica, nella presa in carico, nel sostegno sociale (quindi “trasversali” alla specificità del ruolo professionale) appaiono capaci di toccare i bisogni di una persona - disabile, malata o in crisi - posta violentemente ai margini da quello che le è capitato. Io ne ho trovati tre che credo siano risolutivi nel curare il trauma e permettere di riallacciare legami, aiutare la ricerca di senso ed il recupero della libertà perduta: riconoscere la storia, rifiutare il modello unico di Normalità, favorire l’identificazione e il legame.
Sapere chi era “prima” quella persona e a che punto della sua esistenza è capitato il trauma, dove stava andando quando la sua vita ha virato così bruscamente. Storia che è sparita, purtroppo, dalle procedure dei medici, che molto raramente ormai fanno l’anamnesi.
Conoscere la storia di qualcuno può favorire la nostra identificazione con lui, molto più dell’uso di una griglia o di un sistema classificatorio, può abbattere le barriere, i pregiudizi; pensiamo alle volte che, sapendo la storia di una persona, abbiamo cambiato il nostro giudizio.
Una nascita o un divenire disabile non calano nel vuoto, vanno a cadere dentro una realtà specifica.
L’evento della disabilità è paragonabile ad un lutto, perché comporta la perdita dell’integrità corporea, di un’immagine di sé irrimediabilmente compromessa, delle aspettative correlate ad un progetto esistenziale, l’elaborazione comporta dunque passare attraverso le fasi di negazione, ricerca, rabbia, accettazione. La cultura dell’ospedale ostacola spesso questa elaborazione, il mondo spesso asettico della riabilitazione impedisce di capire che buona parte della ripresa è nel riannodare un rapporto affettivo con il mondo. Medicalizzare e normalizzare sono processi connessi con un progressivo smantellamento del Welfare a cui stiamo assistendo negli ultimi anni.

Il discorso sulla normalità che lei fa nel libro è molto interessante ma poco praticato dagli psicologi e dai terapeuti in generale
Il modello di normalità vigente nel nostro mondo fa riferimento al fatto che l’individuo deve impegnarsi per raggiungere la capacità di destreggiarsi nel mondo così com’è, di competere con gli altri, di trovare un inserimento lavorativo, di costruire un suo mondo privato di amicizie e di affetti, eccetera. Posto che egli raggiunga tali obiettivi anche in forma minimale, la tensione verso la crescita, la maturazione, la consapevolezza personale - in breve verso l’umanizzazione - tende ad estinguersi.
Attualmente mi sembra che il modello trainante di normalità, proposto come immagine di maturità desiderabile e seducente, sia funzionale ad una cultura liberistica, basata prevalentemente su esigenze “aziendali”, dalla quale si vanno lentamente cancellando i diritti, si prendono le distanze da qualunque forma di protesta sociale o di espressione di bisogno.
Non dimentichiamo l’influenza profonda dell’inconscio sociale sulla soggettività, indagata a fondo da Anepeta nei suoi libri: i modelli idealizzati che la persona adotta come mete interiori sono determinati storicamente e culturalmente ma vengono percepiti come naturali e in quanto tali considerati non discutibili.

Lei la definisce “normalità pericolosa”
La seduzione della normalità e la patologizzazione della diversità sono armi potenti che si sono tradotte sul piano dell’ideologia della salute nella medicalizzazione e nella normalizzazione degli individui.
Tutti gli esseri umani nascono dotati di due bisogni fondamentali, la soddisfazione dei quali assicura uno sviluppo sano: il bisogno di appartenenza/integrazione e il bisogno di opposizione/individuazione. Il primo si riferisce alla necessità assoluta per l’essere umano, di stabilire legami significativi, di sentirsi parte di una famiglia, un gruppo, una comunità, il secondo implica il dovere-diritto di essere se stessi, di esprimere la propria individualità, anche attraverso il conflitto e contro il proprio gruppo di riferimento.
Anepeta ha sottolineato l’importanza dell’individuazione come spinta alla crescita, alla differenziazione, all’innovazione, senza questa istanza le culture e le persone resterebbero immobili, identiche alle generazioni precedenti. Questa dinamica diventa ancora più difficile per un disabile, visto spesso come un eterno bambino, che si sforza di essere accettato adeguandosi alle aspettative altrui, inibendo ulteriormente la propria volontà divergente. L’adolescenza in quest’ottica rappresenta un banco di prova durissimo.

Il libro si conclude con l’esperienza del Progetto Ulisse, in cosa consiste?
Il Progetto è nato da poco, nel 2007, ideato da Fortunata Iannucci, consulente alla pari del CpA (Centro per l’Autonomia) di Roma. Il Progetto consiste in un modello di gruppo di auto aiuto triennale per adolescenti disabili, prevede un servizio di consulenza alla pari, di sostegno alla famiglia, di orientamento, la formazione di un gruppo di auto e mutuo aiuto e il sostegno nell’organizzazione di un viaggio-vacanza finale, un momento significativo, di rinnovamento per vivere il cambiamento legato ai nuovi apprendimenti.
È la prova che la solidarietà può essere una spinta rivitalizzante, in un viaggio che da fuori arrivi dentro, per dare senso a ciò che è successo, proporsi un obiettivo, per risentirsi di nuovo “interi” e in connessione con gli altri.

Pisana Collodi
La normalità dell’handicap
CISU, 2008

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